Lungo la costa sudorientale italiana, sin dalla preistoria, si trovavano distribuite, accanto alle popolazioni propriamente italiche, altre dinastie. Tra queste, quella dei "Messapi", stirpe giunta in Italia agli inizi della "Età del ferro". Questo popolo si spinse sulle coste italiane o per sfuggire ad incursioni nemiche, o perché vi trovò propizi spazi di insediamento. Il termine antico "Messapia", "terra di mezzo", sta ad indicare l'area occupata da questa popolazione, situata tra il territorio degli Itali e il mondo ellenico, individuabile nella penisola salentina.
Le fonti letterarie attribuirono ai Messapi anche la denominazione di "Pelasgi" e affermarono che questo territorio vantava la presenza di altre due etnie: i "Sallentini", che occupavano la fascia ionica della regione, e i "Calabri", abitanti della zona centro-orientale adriatica. Di qui l'appellativo "Sallentia" dato alla penisola.
Sulle radici di questo lignaggio vi sono molti dubbi e differenti interpretazioni. Erodoto assegnò a questa gente tutta la zona che si estendeva da Taranto a Brindisi e poi giù, fino a Santa Maria di Leuca, e le conferì un'origine cretese-micenea, anche se altre fonti la vedono come mescolanza di illirici e di cretesi o le riconoscono una provenienza balcanica.
I Messapi crearono una civiltà complessa e fondarono, nel corso dei primi tre secoli del millennio a.C., numerose città, tra le quali Vaste, Alezio, Rocavecchia e Manduria, paese, quest'ultimo, di notevole importanza e sede del mitico re Arthas. Il lento processo di urbanizzazione si era rinsaldato tra il VII e il III secolo a.C. Le vecchie società indigene avevano accettato il passaggio dallo stato tribale dei primi gruppi preistorici alla situazione "protourbana" del periodo miceneo avanzato, fino a conquistare una più stabile condizione di vita, tutelata dalle mura presenti intorno ai centri urbani.
Ogni area di stanziamenti vicini rappresentava un microcosmo autosufficiente, consolidato da divinità comuni. Queste deità simboleggiavano l'unione tra i vari casati, che si preoccupavano di mantenere acceso il "fuoco sacro pubblico", mentre i nuclei familiari incrementavano la "fiamma domestica", segno che legava tutti i consanguinei, guidati dal capo patriarcale.
Il dio "Taotor Andirao" e la dea "Bama", che rappresentavano rispettivamente le divinità maschili e femminili, avevano la loro dimora di culto a Rocavecchia, nella "Grotta della Poesia". Il dio "Batas", sovrano della folgore e della luce, era adorato nella "Grotta della Porcinara", e concerneva il sito di Leuca. Secondo il De Andria, alle pratiche della venerazione divina è collegato anche il "Fonte Pliniano" di Manduria, un "atro abissale tutto ombra e silenzio", come affermava il Leone.
I numerosi scavi effettuati nella zona hanno riportato alla luce i tracciati stradali esistenti nel periodo preso in questione. Queste scoperte attestano lo stretto legame che c'era tra l'abitato e il luogo religioso o la necropoli che spesso era ad esso annessa. Tali strade erano, in realtà, dei vicoli stretti e tortuosi e, in prossimità dei villaggi ed entro le mura, i percorsi erano delimitati lungo i lati da paracarri e, sulle soglie delle porte d'ingresso, da battenti centrali.
Un altro elemento importante per delineare la fisionomia di questa dinastia era la relazione che essa stabiliva con i propri defunti. Nel Salento, ancora oggi, si possono visitare alcune delle tante necropoli esistenti nel passato. Scavate nel terreno come sarcofagi rettangolari, erano realizzate in diverse dimensioni, secondo il numero dei morti che dovevano contenere. Oltre ai resti umani, conservavano cospicui corredi in vasellame di bronzo e di ceramica, talora armamenti e monete d'argento. Questi oggetti indicavano il desiderio, da parte dell'estinto, di portare con sé, nel mondo ultraterreno, le cose più care usate in vita. La "trozzella" era lo strumento domestico più amato dalle donne e maggiormente presente nelle loro tombe, mentre le armi non potevano mancare nell'ipogeo maschile del prode di guerra.
All'inizio del V secolo a.C., i Messapi si raccolsero in una "Sacra Lega" per salvaguardare i propri interessi e per preservare l'autonomia politica ed economica dell'intera regione. La "Dodecapoli Messapica", o Confederazione delle dodici città principali, si fondava su un solenne giuramento che stabiliva la fratellanza fra i suoi clan. Tale istituzione rinsaldò il legame, fino allora precario, tra le varie etnie presenti nella zona. Fra queste tribù, le quali, in passato, avevano spesso usato le armi per risolvere dei contrasti interni, s'instaurò un'unione più forte, garantita da un nuovo spirito di cooperazione e da una politica accentrata che puntava a preservare i diritti di ciascuno contro ogni sopraffazione e s'impegnava a combattere eventuali usurpazioni, interne ed esterne, che potevano ledere ogni singolo individuo o la collettività.
La Messapia, pur mantenendo una certa indipendenza rispetto alle influenze straniere, subì il fascino, culturale e politico, che Atene esercitava su molti paesi che si affacciavano sul Mediterraneo centro-orientale. Lo storico greco Tucidide, in una sua opera, "La Guerra del Peloponneso", riferì di un'alleanza messapico-ateniese, basata anche su appoggi militari. Di questa coalizione, però, si hanno notizie solo ai tempi di re Arthas, il più grande sovrano messapico dell'età classica. Ma, riguardo alla prima fase della "Lega Messapica", non si sa nulla. La cosa certa è che questa gente aspirava a conformare in parte le proprie costumanze alla cultura ellenica.
Svariate loro abitudini sono venute alla luce analizzando alcuni disegni impressi sui vasi rinvenuti all'interno degli ipogei tombali. Gli studiosi dividono tale vasellame in due categorie: quello più antico ("geometrico-iàpigio"), che abbraccia l'arco di secoli che va dall'epoca micenea al VII secolo a.C.; e quello dalle figurazioni più avanzate e leggibili ("messapico-greco"), che continuò ad essere realizzato dagli artigiani salentini sino alla venuta dei Romani. Le diversità si riscontrano nei motivi, nei modelli e nelle figure.
Riguardo alla lingua dei Pelasgi, accertato che si tratti di un idioma di difficile decifrazione, si sono ottenuti notevoli risultati, sebbene non ancora sufficienti a palesarne l'evoluzione. Negli anni Sessanta e Settanta, alcuni ricercatori hanno scoperto varie epigrafi a Lecce, a Vaste, ad Oria, a Manduria, ad Ugento e in altre località. L'influsso della civiltà greca è facilmente individuabile anche in questo campo. La parlata messapica non poté sopravvivere per la mancanza di testimonianze letterarie che potessero perpetuarne l'esistenza. Gli studiosi della storia del sud hanno rinvenuto materiale molto importante che è servito a chiarire numerosi punti interrogativi circa la cultura messapica. Ma i dubbi permangono e il fascino di questo popolo così vicino a noi salentini, oggi come allora, fa breccia nei nostri cuori, scatenando innumerevoli curiosità che, purtroppo, potremmo toglierci solo se tornassimo indietro nel tempo.
Quel tempo che ha permesso alla civiltà odierna di piantare saldamente le proprie radici. Quel tempo in cui il Salento era abitato da molteplici etnie caratterizzate da usanze diverse fra loro, ma ugualmente importanti al fine di creare l'attuale fisionomia di questa penisola. Ci definiamo "salentini" e, più in generale, "italiani", ma nelle nostre vene scorre anche un po' di quel sangue che appartenne ai Messapi, "popolo tra i due mari". "Adriatico" e "Ionio" uniti, in passato, da un comune destino. Adriatico e Ionio facenti parte, oggigiorno, di una realtà caratterizzata da un unico nome: "Salento".